Fermarsi per vedere dove si sta andando, per ricordarci chi siamo in questo viaggio che continuamente ci fa cambiare, come in una danza in cui ogni passo ci avvicina o ci allontana dalle nostre parti più essenziali.

domenica 28 maggio 2017

L'uccello d'oro- Grazia Deledda letta da Gianni Cossu- 25 anni l'AIL a Nuoro




 Fu visto l'emigrato ritornare peggio di come era partito, con una vecchia valigia legata con una corda, e vestito di una grande giacca povera tutta abbottonata: per di più, sotto il berretto a quadretti, anch'esso in cattivo stato, aveva la testa e metà del viso fasciati di garza e di bende nere: il resto delle guance azzurrognolo di barba non rasa da più giorni; mentre le mani erano bianche come quelle d'un malato. Qualcuno che credeva di riconoscerlo lo scansò, ricordandosi che il mese avanti una donna era tornata dall'estero con la lebbra: e poi anche perché soffiava un vento furibondo, uno di quei classici aquiloni speciali del luogo, che pareva volesse davvero, come fa l'aquila affamata con gli agnelli, portarsi via la gente che si azzardava a uscire con quel tempo.
L'uomo quindi, solo, con la sua pietosa valigia strangolata, le vesti gonfie di vento, si fermò, come per orizzontarsi, nella piazzetta che strapiombava, a guisa di bastione, sopra la valle. Bellissima era la valle, nei tempi buoni; adesso, sotto la luce spettrale del crepuscolo, le cascate di olivi e i boschi di castagni si agitavano tumultuosi con un rombo metallico di mare in tempesta. L'albergo per villeggianti, che spadroneggiava solo in questa piazzetta tutta sfarfallante di alberelli rossi e gialli, era in parte chiuso; ma la porta a vetri, sotto la pensilina di cristalli scuri, brillava di luce come un camino.
L'uomo esitò, prima di decidersi a suonare; non intimorito, e nemmeno timido, ma perché sapeva che il proprietario dell'albergo era adesso un suo parente, al quale un tempo egli aveva prestato denari, solo in parte restituiti: e non voleva far pesare una presenza interessata; anzi egli tornava con buoni propositi, con desiderio di simpatia e di pace.
Solo dopo qualche momento, dopo aver guardato in su verso il paesetto ammucchiato in una specie di forra, e tutto terroso e fumoso, con qualche scintilla di lume, come una carbonaia in funzione, premette il bottone del campanello. Aprì una donna grassa, vestita di rosso, con un gran viso ridanciano che però, alla vista della valigia e della testa fasciata del forestiero, si fece subito ostile e inospitale.
Egli domandò del proprietario.
- È fuori del paese - ella rispose pronta, già decisa a non lasciarlo neppure entrare. - Io sono la moglie. L'albergo è chiuso per restauri.
Egli capisce che non c'è da far niente; e non protesta, non insiste: solo, con un sorriso che sembra idiota, dice il suo nome. La donna lo guarda meglio; forse sa del debito del marito, e quella valigia, quella testa fasciata, quelle scarpe che portano ancora le rughe e la polvere di un esilio poco fortunato, la induriscono nella necessità di difendersi. Per non sembrare del tutto inumana, disse:
- Torni quando c'è lui. C'è, sa, in cima al paese, un'osteria con alloggio.
E spinge, spinge la vetrata, perché il vento pare voglia aiutare l'uomo a penetrare nella casa. Ma non lo aiuta a salire l'erta strada che come una scalinata pietrosa s'inerpica su per il paesetto e pare vada a perdersi sul cocuzzolo del monte già tutto nero sotto un cielo glaciale. E come da un ghiacciaio il vento vien giù con una ferocia di tormenta: è un piombare selvaggio, non di una, ma di stormi di aquile, con fischi, sibili, beccate che penetrano fino al petto del viandante e lo costringono a chiudere gli occhi, a difendere la sua valigia che tende a seguire la rapina del vento; a ricordare che nella città donde veniva c'era almeno, nei giorni di forte bufera, una corda legata da un punto all'altro dei grandi viali perché i pedoni potessero afferrarsi e procedere senza cadere.
Qui, nel suo paesetto, del quale conosceva ogni pietra, ogni porta, si sentiva più malfermo e strapazzato che nella metropoli sconosciuta. Tutto era chiuso e scuro, e in cima all'erta non appariva neppure il lume dell'osteria. Ma a metà strada egli riconobbe una porticina, riparata dall'arco di una scaletta esterna; vi abitava un tempo un suo cugino, calzolaio, molto povero: e gli venne in mente di bussare, pensando che spesso il povero è più ospitale del ricco. Anche lì, tuttavia, esitò. Dalle fessure della porta uscivano fili di luce e voci e strida di bambini. Non sono graziose né beneducate, le creature della povera gente, ed egli non credeva d'intenerirsi nel sentire le querele di questi suoi piccoli parenti, ma pensava che la sua apparizione li avrebbe forse divertiti, e nello stesso tempo fatto piacere ai grandi. Avrebbe detto, sedendosi all'umile focolare:
- Adesso vi racconterò le storie del mondo lontano.
Ma questi erano pensieri suoi, di campagnuolo che, nonostante l'esperienza e la furberia acquistate appunto nel girare il mondo, ha conservato un fondo di semplicità biblica.
Dentro, intanto, i ragazzini litigano, si dicono parole ingiuriose, ridono e piangono, finché una voce alquanto rauca, di donna raffreddata, che deve essere la madre, non li minaccia di bastonarli, e non ottenendo l'effetto desiderato, aggiunge esasperata:
- Adesso, il vento fa venir giù il lupo mannaro.
In questo momento l'uomo bussava; e un silenzio fulmineo soffocò le piccole querele. Nella strada il vento urlò più forte, assecondando la minaccia della madre. Ma la prima ad avere qualche paurosa reminiscenza era lei; e quando ai replicati colpi alla porta si decise ad aprire nel veder l'uomo quasi mascherato, con quella valigia poco rassicurante, indietreggiò e parve gonfiarsi nei suoi stracci come la gallina che vede minacciati i suoi pulcini. Subito però riconobbe l'emigrato: lo riconobbe dagli occhi, ancora dolci e mansueti, del colore delle castagne del luogo: e il suo viso scarno si contrasse in una sofferenza quasi fisica.
- Tu - disse con impeto. - Ti credevamo laggiù... ricco. Come sei tornato! Sembri davvero il lupo mannaro.
- Tuo marito dov'è?
Ella si piegò fin quasi a terra: scoppiò a piangere e non rispose. Era un pianto d'indignazione, più che altro: poiché il marito era morto ed ella credeva che tutto il mondo fosse in obbligo di saperlo.
Ancora più spaventati i bambini si nascosero l'uno contro l'altro, chiudendo gli occhi per non vedere l'uomo nero. Egli entrò, si mise a sedere, si guardò attorno: però non parlava e lasciò che la donna si calmasse. Ella non si calmava: pareva anzi impaurita anche lei dal ritorno, dalla visita di lui, e volesse a sua volta spaventarlo col racconto delle sue disgrazie.
Oh, sì, ella lo sapeva bene; dappertutto c'è grande miseria, disoccupazione, bisogno; ma nelle città si ottiene almeno una minestra, un asilo per gli orfani: qui, invece, la gente è dura; qui i poveri devono vivere come bestie selvatiche, nutrendosi d'erba e di radici.
L'uomo ascoltava, buio in viso, senza farle osservare che intanto sul fuoco davanti a loro bolliva una pentola dalla quale usciva odore di legumi e di grasso: poi, d'un tratto, parve cambiar d'umore e divertirsi alla scena. Si volse verso i bambini, domandò come si chiamavano, li invitò ad avvicinarsi: ma al suono della sua voce, li vedeva sempre più annodarsi fra loro, sordi e muti ad ogni richiamo.
- Bene, - disse infine, come fra sé, - sono proprio il lupo.
- Sì, - proseguiva la donna, con una tosse un po' vera, un po' forzata, - i tempi sono terribili: la gente è cattiva, l'uccello d'oro è volato via dai monti del paese e non tornerà mai più.
- L'uccello d'oro...
Nel mucchio dei bambini si vide allora qualche viso volgersi in qua, qualche occhio brillare come al riflesso di un lampo: oh, in compenso alle credenze del lupo che si traveste da uomo e penetra nelle case dei bambini cattivi fingendosi magari, come questo straniero, un loro parente, essi conoscevano la storia del grande uccello d'oro che dagli antichi tempi viveva nelle grotte dei monti, e quando la buona gente lo invocava di cuore, volava sul paese e disperdeva ogni male. Era più fulgido del sole, potente come lo Spirito Santo: ma bisognava esser buoni per farlo uscire.
Come ossessionato dalla sua idea, l'uomo però ripeté:
- Adesso dai monti scendono solo i lupi.
E gli occhi dei bambini tornarono a chiudersi, e i visi a nascondersi. La madre pareva avesse piacere che facessero così, per allontanarli dal malcapitato, dalla sua miseria e soprattutto dal suo male: e frugava nella pentola aspettando, per tirarla giù, che egli se ne andasse.
Egli lo capiva benissimo: un sorriso, questa volta un po' crudele, gli balenò negli occhi. Si alzò, prese la valigia, fu per uscire: la porticina stessa, col suo battere e il suo stridere, lo invitava ad andarsene. Ma quando la donna corse premurosa ad aprirgliela accadde una cosa che solo più tardi i bambini dovevano capire: l'uomo aveva aperto la giacca, e sotto vi apparve un bel corpetto di lana a maglia, di quelli che usano i signori: una catena d'oro lo decorava; una catena che, tirandola, pescò dal taschino profondo un grosso cronometro d'oro con la calotta incisa e sparsa di piccole perle. Guardare l'ora fu certamente un pretesto per metterlo in mostra, e così pure l'indugiarsi dell'uomo ad aprire un portafoglio tratto dalla tasca interna, e leggervi dentro come in un libro.
La donna aveva occhi buoni; e vide che i fogli del libro erano larghi biglietti di banca. L'uomo ne tirò fuori uno, dei più piccoli, e glielo porse: ella lo prese, esitando, poi con un riso chiaro di gioia, di sorpresa, d'ingenua furberia, disse:
- Ma perché te ne vai? Resta a prendere un boccone con noi. Dove vuoi andare, con questo tempo, malato come sei?
Egli s'inumidì le labbra, gustando la sua vendetta.
- Oh, non è nulla: ho gli orecchioni.
Poi si buttò nel vento; e come l'uccello d'oro non si fece più vedere.


domenica 6 novembre 2016

Alfredo Camera






“Racconti e Incontri”
Psicodramma Analitico
di
 Alfredo Camera





Antefatto

La scena si svolge nel tardo pomeriggio di una giornata di sole autunnale, trascorsa tra i racconti raccontati e quelli secretati, tra giovani e anziani, tra maestri e allievi. Per sottofondo il tenero gorgoglio  di una piccola vita in braccio al suo giovane babbo.

I personaggi:
La Cura, seduta di spalle a chi guarda la scena
Il Curante, seduto di fronte alla Cura e ben visibile a chi guarda la scena
Il Cancro, in piedi tra la Cura e il Curante


I Atto

Il Curante:
"Cara Cura,
il gruppo è qui per te oggi.
Chi è la Cura?
Di cosa è fatta?
Sei una o sei tante?
C'è una Cura o ci sono tante cure?
Quante facce hai?
Cara Cura,
Stamattina, si è cominciato con una frase, del Presidente,
di scusa:
chiedeva scusa per il ritardo.
Si è sempre in ritardo: in ritardo nella Cura!
Si comincia la Cura quando il danno  è già cominciato
e si soffre per questo.
Arriviamo in ritardo.
Si cerca di recuperare il tempo perduto nella Cura
ma c'è già il danno.
E queste scuse le porta il Presidente del Volontariato.
Già, il Volontariato: la forza della volontà nel combattere il danno, il danno di base, che poi è la fragilità dell'essere vivente che appena nasce è già esposto alla sofferenza e alla Morte.
Il Volontariato come volontà umana di combattere per la Vita.

Cara cura,
Tu sei stata definita e descritta in molti modi.
Si è parlato molto oggi
di Mente,
di struttura che connette,
di ponti,
di porte
e di confini.
Ma allora la Cura è una Mente?
È una struttura che connette tanti fattori? tanti agenti e tante agenzie?
Sono state messe in campo  
figure e parole
disegni e frasi
racconti e formule
questa mattina e questa sera.
Toccare il padre per trovare le parole.
Fare un disegno per rappresentare la presenza di una madre.
Ma tu, cara Cura, sei una madre? o sei un padre?
Sei il sapere di un  padre  o l'estetica di una  madre?
Il sapere del padre è spesso un sapere saputo, un sapere scientifico che basta a sé stesso. 
L'estetica della madre è AISTHÊSIS: è sensazione, è emozione.
La Cura è il sapere paterno del protocollo scientifico
ma
la Cura è anche  la commozione gioiosa di una terapeuta che piange abbracciando il suo paziente.

Cara Cura,
Sei stata definita anche un numero paradossale.
Un numero tre che rappresenta la somma di due: uno più uno uguale tre.
Sei una relazione, è stato detto, sei qualcosa di più della somma di due agenti: Curante e Paziente.
È apparsa la figura di una albero con radici, tronco e rami: è un immagine dell' essere vivente, questa dell'albero, ma è anche immagine della Cura.
Cara Cura,
Si è parlato di te come equipe multidimensionale  e multiprofessionale.
Cara cura,
Non è che per caso soffri di una disturbo di personalità multipla?

Parla la Cura
"Sì, può capitare che vado incontro a scissioni, ad essere spezzettata tra i vari agenti, tra tutti quelli che pensano di rappresentarmi, ho bisogno di essere curata per evitare la frammentazione"

Il Curante
"Ecco quello che noi vogliamo fare: curare la Cura!
Deve essere la Cura il nostro paziente primario e il malato diventa il paziente secondario
nel senso che
solo se si è curata la cura si può curare il malato.
Questa è l'Alleanza Terapeutica.
Non quella classica verticale tra curante e paziente
ma
l'Alleanza Terapeutica orizzontale tra agenti curanti,
che è primaria e rappresenta la Mente della Cura: la struttura che connette i fattori della Cura.
Tante proposte sono state fatte per creare l'Alleanza Terapeutica ad esempio si è parlato di Supervisione d'equipe"

La Cura:
"Posso suggerire al posto della supervisione una Co-visione?
Un guardare insieme, magari tutti dal basso, arrivando al Super insieme, costruendo il Super attico tutti insieme, piano piano al piano alto"





II Atto
(... entra il Cancro)

Il Cancro:
"Sono il Cancro. Mi avete citato! mi definite il cattivo, il nemico, il distruttivo...
Però non avete parlato molto di me, eh!?
E le mie, di esigenze?
Vi ricordo che io rappresento la forma primaria della Vita:
cellule che si riproducono senza tregua, che diventano miliardi, che invadono senza tregua, perché non-ab-bia-mo-li-mi-ti!
Anarchia: rifiuto del sistema, rifiuto dei confini e delle porte, rifiuto del  limite.
Questa è la Vita sfrenata! che rifiuta l'Organizzazione Sistemica della Vita.
Per me Cancro, la Vita è volontà di potenza senza limiti, la Vita come Super-Vita.
Fate attenzione, però:
Se io intervengo è perchè il vostro sistema non funziona, è carente, è solo apparentemente vitale, e allora è ovvio che io posso entrare in gioco. È come in politica"

La Cura:
"Hai ragione: ecco perchè io devo essere anche politica come Cura, cioè devo essere una polis, dove molte figure collaborano a mantenere la Vita della comunità. È questo che appare oggi: famiglia, storie familiari, medici, psicologi, operatori sanitari, politici, volontari  sono tutti miei organi.
Anche io sono un organismo con tanti organi.
Ognuno di questi organi, però, deve rispettare e collaborare con gli altri e deve limitare se stesso, altrimenti il Cancro, la proliferazione, può riguardare anche questi organi.
Ci può essere un Cancro delle agenzie di Cura che metastatizza gli altri".

III Atto
(restano da soli il Curante e la Cura)
Il Curante:
 "Cara Cura, ma con la Morte come la mettiamo?
Comunque la Morte si può sconfiggere, cara Cura?
Eppure ne abbiamo parlato poco, oggi, della Morte..."
La Cura
"Eh no: io sono presente anche nella Morte, io so che la Morte può arrivare, la so accogliere, la devo accogliere come Cura, la Morte è parte della Vita.
La Morte è un fatto che avviene, che deve avvenire, ma che deve essere sociale: nel gruppo. Solo così anche la Morte viene presa dalla Vita e non distrugge la Vita".

Curante.
"Cara Cura, da curante ti chiedo: ma quale è, alla fine, il modo migliore per diventare curante?"
"Caro Curante, mi viene da risponderti con le parole di un premio Nobel: Bob Dylan
How many roads? Quante strade deve percorrere un uomo per essere uomo? Quante strade un curante deve percorrere per essere  curante? la risposta, mio caro  amico,  soffia nel vento”



domenica 30 ottobre 2016

mercoledì 12 ottobre 2016

Racconti e incontri

Ecco ci siamo... 

il tirocinio di Giomaria (Peddio), l'incontro con Daniela (Ibba), tutta l'estate al lavoro e poi Patrizia (Idile) e Marialuisa (Rocchigiani) e naturalmente Lucia (Deroma). 
E poi la cena "silenziosa" a Cagliari; i contatti di Pietro (Soddu) con le sedi dell'AIL e poi noi con gli psicologi  che nelle sedi lavorano finalmente : compagni in attraversamento e sosta.

Ed ecco...ci siamo, sulla pietra alta...







lunedì 10 ottobre 2016

E i gruppi di parola?

“Ci vogliono i gruppi di Parola per i genitori, non giudici”
(Andrea, 9 anni – 2011)


 Abbiamo provato a ragionare insieme alla nostra collega Patrizia Idile sulla possibilità di applicare la sua esperienza ( principalmente con i bambini dei genitori separati) al contesto sanitario e in particolare a quello psicooncologico. Ne è uscito questo articolo secondo me molto interessante


“Lo so cosa sento… ma non voglio dirlo”.  È così che mi rispose un operatore al primo incontro del “Gruppo di Parola” e riuscì a sintetizzare tutto ciò per cui questi gruppi sono nati anche recentemente in Italia, dopo le esperienze di altri Stati europei (canadesi, francesi e anglosassoni in particolare).
Per spiegare meglio la funzione di un “Gruppo di Parola” e chiarirne la denominazione, può essere utile riprendere questo pensiero: molti studi recenti sottolineano il forte bisogno degli operatori sanitari in campo oncologico ed ematologico di mettere parola e ricevere parola nei momenti di traumatizzazione vicaria. La maggior parte di essi non viene formata e informata in modo adeguato sul trauma insito nella relazione di cura, sul senso dei cambiamenti intercorrenti nell’organizzazione delle cure,  e viene lasciata sola e all’oscuro, senza possibilità di parlare dei sentimenti e delle paure specifiche di questa posizione lavorativa ed esistenziale. 
Risulta che la maggioranza delle decisioni vengono calate dall’alto senza che le informazioni circolino paritariamente e facilmente  tra  i membri dell’equipe (medici, ma soprattutto infermieri, ausiliari, o
ss e personale delle pulizie che nei reparti ematologici stabilisce una relazione stretta con il paziente).
“Mettere parola” non è sempre facile così il Gruppo, composto da altri che vivono la medesima esperienza e condotto da una persona che viene percepita come “estranea”, può rappresentare uno strumento importante ed una opportunità preziosa per dare un nome a ciò che si prova e, soprattutto, per “autorizzarsi” a provare determinati sentimenti (dolore, rabbia, vergogna, tristezza, speranza, curiosità, etc.), esplicitandoli senza paura.
Occorre chiarire, come specificato dalla Marzotto (2010), che “[…] il Gruppo di Parola non ha finalità terapeutiche nel senso che non presuppone uno stato di malattia e la relativa necessità di un cambiamento […]. Non si tratta nemmeno di un gruppo di ri-educazione”
La prassi metodologica sperimentata a Milano presso l’Università Cattolica - Alta Scuola di Psicologia Gemelli è quella di:

-          4 incontri, di due ore ciascuno (di cui l’ultimo con i coordinatori o responsabili), con 8/10 partecipanti;
-          iscrizione condivisa dal direttore del servizio;
-          condivisione e trattazione degli argomenti più importanti attraverso l’utilizzo di emoticon*, cartelloni, letture, giochi, drammatizzazione, etc.;
-          redazione di una lettera finale da leggere l’ultimo giorno
-          una “ritualità” dei gesti che, nella ripetizione durante tutti gli incontri, rappresenta un quadro simbolico importante che “rassicura”;
-          il “patto di segretezza” tra conduttore e partecipanti che sugella la reciproca fiducia e che permette di poter esprimere qualsiasi opinione sulla propria situazione.


Spazio comune di sogno

                                         














È nell’incontro con l’altro che prende forma l’esperienza. In questo spazio così complesso, che comprende svariati linguaggi, si costruiscono i significati e si condividono i vissuti. Ma cosa succede quando si comunica con linguaggi diversi, quando le appartenenze sociali, famigliari, istituzionali, culturali e storiche si intersecano? Citando Gregory Bateson, padre del pensiero sistemico, possiamo dire che, cosi come “Il fiume modella le sponde e le sponde guidano il fiume”, noi stessi siamo allo stesso tempo frutto e radice dell’ambiente che ci vede in relazione. È in questo luogo di complessità che la psicologia Sistemico Relazionale trova terreno fertile su cui posare le sue lenti, per una osservazione che non è di certo neutra rispetto ai sistemi che osserva. È su questi presupposti che nasce l’esperienza delle “soste”, frutto della collaborazione tra l’A.I.L. di Nuoro e la IEFCOSTRE di Cagliari, Scuola di Formazione in Psicoterapia Sistemico Relazionale. Nell’incontro tra la Psiconcologia e la Psicologia Sistemico Relazionale, abbiamo tratto gli spunti teorici per l’organizzazione e la metodologia degli incontri d’equipe. Di seguito una descrizione schematica della struttura e funzione degli incontri:

Tempi e frequenza degli incontri:
Un incontro ogni ultimo martedì del mese, della durata di un’ora.

Modalità di iscrizione:
Per partecipare agli incontri si è chiesto agli operatori di compilare il modulo di iscrizione e inserirlo nell’apposito raccoglitore entro il giorno precedente all’incontro e a partire dalla data di affissione dell’avviso.

Num. Partecipanti:
Max 6 -8 partecipanti

Modalità di conduzione:
Co-Presenza di n.1 psicologa del reparto e n.1 psicologo della scuola di formazione in Psicoterapia Sistemico Relazionale. La psicologa conduce l’incontro, modera gli interventi e chiarisce le regole. Lo psicologo esterno osserva gli scambi e nella chiusura dell’incontro restituisce in forma narrativa la trama dell’incontro.

Fasi dell’incontro:
1.      Ognuno dei partecipanti può proporre un caso o un argomento da trattare
2.      Si procede con il racconto del caso da parte di un operatore e si chiede ai partecipanti di segnare su un foglio quella che si considera essere la parola chiave
3.      Ognuno nel gruppo è chiamato a riferire il racconto attraverso la parola chiave individuata e a ipotizzare quale sia la motivazione, la domanda o la richiesta che il collega fa attraverso l’esposizione del caso
4.      La persona che ha prima raccontato il caso e, poi, ascoltato i commenti, dirà come si è sentita durante l’ascolto e da che cosa è rimasta maggiormente colpita.
5.      Lo psicologo restituisce ai partecipanti il filo dell’incontro attraverso la restituzione orientata alle ridondanze che regolano la relazione nel qui e ora del gruppo.

Giomaria Peddio, Daniela Seddone





venerdì 2 settembre 2016

Tra le righe




L’incontro in ospedale tra il medico e il paziente non è affatto banale. L’ospedale è familiare al medico che ci lavora e che ha orientato la sua vita ad abitarlo. L’ospedale per il medico è l’ambiente al quale la sua persona si è in vario modo adattata. 
L’ospedale è un ambiente ad alta complessità in quanto abitato dalla comunità delle persone che ci lavorano e dalle persone che ne usufruiscono e che nell’ambiente fisico creano l’ambiente relazionale. Questo ambiente, o contesto, è generato più o meno consapevolmente dai suoi abitanti e li influenza in base al diverso grado di responsabilità correlato al ruolo ricoperto. Minore è il potere della persona, maggiore è il potere del contesto sui suoi movimenti. L’ambiente in cui lavora l’operatore è il risultato del modello organizzativo vigente e delle regole implicite che lo governano e che facilitano o ostacolano la realizzazione di una convivenza orientata al raggiungimento dell’obiettivo che l’organizzazione si prefigge e che, nel nostro caso, è quello di salvaguardare la salute dei cittadini e della comunità.
Il medico incontra il paziente in questo spazio e può considerare questo incontro come parte dell’ingranaggio che tende a semplificare e ridurre il più possibile la complessità, per gestirla, oppure può disporsi all’ascolto della domanda che la persona porta e che, in quanto domanda di salute implica una dimensione soggettiva e dunque una certa dose di incertezza.
Nel primo caso, l’oggettivazione della domanda di salute della persona viene intesa esclusivamente come domanda rispetto alla dimensione biologica considerata come standardizzabile e omologabile. Tale analisi della domanda metterà l’incontro tra il medico e il paziente nella dimensione della filiera delle prestazioni in cui il medico gestisce la salute della persona, la quale delega a lui integralmente l’interpretazione dei segnali del corpo e della mente.
Nel secondo caso la domanda di salute può essere esplorata anche nelle dimensioni implicite che i segnali fisici com-portano nel loro manifestarsi. L’ascolto della dimensione soggettiva, insita nella domanda di salute del paziente, implica un consapevole processo di sintonizzazione affettiva. Quando due persone si incontrano si attiva in loro questa particolare competenza, garantita dai neuroni specchio(Gallese-Onnis 2015). La sintonizzazione affettiva è la capacità di sentire l’altro in sé stessi, di avere in sé una mappa dell’altro, del tu con cui si è in relazione in quel momento.  L’operatore della salute ha la possibilità di accedere consapevolmente a questa competenza per esplorare la domanda di salute della persona che è di per sé una domanda multidimensionale e soggettiva.
L’OMS, Organizzazione mondiale della sanità, propende per questo tipo di analisi della domanda, quella cioè che prende in considerazione la dimensione esplicita e implicita, oggettiva e intersoggettiva,soggettiva, biologica e psicologica e sociale. Nel definire la salute l’OMS parla infatti di “stato di Benessere psico-fisico” e non semplicemente di “assenza di malattia”.

La persona che entra in ospedale con una domanda di salute, quando la salute vacilla, si trova in uno stato di forte incertezza rispetto a sé, al sé corporeo e sociale.
La persona tende a ricercare dentro di sé i “modelli operativi interni” (Bowlby) che permettono un buon attaccamento nella relazione di accudimento. Questi modelli si sono formati nelle primissime fasi della vita di relazione… nel primo anno di vita della persona. L’ingresso in ospedale per una grave patologia comporta dunque, di per sé,una certa quota di regressione e dunque di paura, incertezza.
Il sonno è il primo a vacillare e la famiglia rappresenta il primo ambiente per la salvaguardia della propria identità in un momento che sollecita forti cambiamenti.